Verità nascoste e infiniti mondi possibili negli scatti artistici di Federica Marin


La sovrapposizione della realtà è un’abitudine radicata nell’epoca contemporanea, dove tutto sembra dover essere diverso da come è, dove la vera essenza si deve nascondere dietro apparenze poliedriche per permettere all’uomo metropolitano di adattarsi camaleonticamente alle diverse situazioni in cui si trova. La protagonista di oggi racconta di queste verità nascoste ma anche di un modo più intimo di osservare la realtà circostante.

 

Federica Marin, architetto di Udine, è da sempre appassionata di fotografia artistica, soprattutto al bianco e nero, almeno nella sua prima fase creativa; lentamente poi inizia ad appassionarsi a concetti più metafisici, più intensi e meno legati all’immagine così com’è, in virtù della sua natura profonda e al suo occhio sensibile attraverso il quale esplora, letteralmente, ciò che non è visibile, e approfondisce gli studi sulla percezione visiva, sulla composizione fotografica e sulla destrutturazione della composizione stessa, un lungo percorso formativo che le ha permesso di giungere al suo stile unico, profondo e intenso.

La tendenza all’approfondimento filosofico e sociologico della realtà contemporanea la spinge a narrare e tentare di portare alla superficie tutto ciò che normalmente è nascosto, sedimentato sotto strati di ricordi, esperienze, maschere che quotidianamente vengono indossare per non riconoscersi, per non scoprirsi, per sembrare meno vulnerabili e, soprattutto, per non affrontare ciò che spaventa di più, ciò che fa paura. Ciò a cui è meglio non pensare. Nell’opera – perché di opere d’arte si parla nel caso della Marin -, Identità contemporanee questo concetto metafisico appare in modo inequivocabile, diretto, proprio in virtù di quella non riconoscibilità degli oggetti e degli sfondi immortalati, se non per qualche dettaglio, quel dover andare a scavare più a fondo, velo dopo velo, per comprendere e identificare la reale identità protagonista, quella che troppo spesso dimentica di essere prima di apparire e confondersi nel caos della folla e dell’immagine estetica.

Così come ne La voce del silenzio, in cui la donna è rappresentata da un manichino senza voce, appunto, la cui esteriorità tanto fondamentale per lei si dissolve e si perde nell’atmosfera metropolitana, essenza effimera perché la forma ha bisogno della sostanza per diventare solida e visibile, per lasciare una traccia nella realtà circostante piena di rumori, di luci, di trasparenze e di generalizzazione. Sembra voler sottolineare, la Marin, che ogni passo, ogni progresso, ogni evoluzione, risiede nelle nostre scelte, dipende da noi in quale degli infiniti mondi possibili, secondo le teorie della mente quantica teorizzata inizialmente proprio dal genio di Albert Einstein e poi sviluppata e applicata alla psiche da moltissimi studiosi – medici e fisici -, viviamo il nostro presente e vivremo il nostro futuro. Anche nell’opera Infinito l’artista riprende la tematica della scomposizione dell’immagine che è tutto ma può essere anche altro, che si può osservare da differenti punti di vista ma darà sempre la medesima prospettiva, come i disegni capovolti di Escher che, a loro volta, aprono l’osservazione verso molteplici possibilità, poliedrici punti di vista che in ogni caso e da qualunque lato li si guardi, danno la sensazione di essere tutti reali. Nei paesaggi invece la Marin entra in una dimensione più magica, più incantata, stravolge i canoni coloristici e li plasma, li modella come se fossero creta, sulla base del suo sentire, della sua innata tendenza ad andare oltre, a svelare l’essenza di ciò che è visibile per restituirla all’osservatore sotto una sembianza differente, più energetica, più legata al senso che non alla pura immagine.

Qui la sua fotografia artistica si avvicina all’Espressionismo pittorico, liberando le emozioni e rendendole protagoniste, attraverso i colori, di luoghi sognanti, di paesaggi capaci di trasportare in una dimensione superiore, quella della visione onirica, dell’immaginazione, dell’intangibile che però resta comunque legato a un mondo reale. Ecco dunque tornare la tematica, cara alla Marin, delle differenti possibilità, delle scelte su come e in che modo guardare e vivere ciò che troppo spesso passa velocemente sotto il nostro sguardo distratto, perché concentrato sulla dimensione razionale e non su quella emotiva, e dipendentemente da quella scelta decidere con quale modalità percepire e sentire gli attimi irripetibili della vita, della natura, dei luoghi che diventano non luoghi.

Il legame con la tecnica del bianco e nero resta comunque forte, indimenticabile proprio perché base di partenza di un percorso di forte evoluzione, tecnica che Federica Marin sviluppa e lega agli scorci metropolitani, come la serie di scatti sul nuovo skyline di Milano con il grattacielo dell’Unicredit, oppure per spostarsi verso concetti più astratti come nell’opera Dissolvenza, in cui non importa l’origine dell’immagine bensì l’idea che desidera rappresentare. Nel corso della sua carriera Federica Marin partecipa alle più importanti collettive internazionali su tutto il territorio italiano e internazionale vince importanti riconoscimenti e premi tra cui, ultimi in ordine di tempo, il Premio di Arti Visive Biennale di Venezia, sez. fotografia pittorica digitale, e il Premio d’Arte Internazionale Nothing but Art a Palazzo Velli Expo di Roma.

Marta Lock

FEDERICA MARIN-CONTATTI

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Riccardo Giorgi Grafica


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